La Commissione Europea ha appena lanciato il nuovo piano di sviluppo per l’agricoltura, l’ambiente e l’alimentazione denominato From Farm to Fork, che si potrebbe tradurre storpiando in “dalla fattoria alla forca”. Si tratta di un piano decennale (2020-2030) che riecheggia un doppio piano quinquennale della fu Unione Sovietica. Le tematiche che intercetta questo piano sono di una estrema complessità e ogni volta che si modifica un tassello ce ne sono decine di altri che si muovono simultaneamente in senso diverso o opposto. Qualcosa di simile a quanto accade col cubo di Rubik dove, mentre il piano europeo guarda ogni volta ad una sola delle sei facce del cubo tutta ordinata e dello stesso colore, dimenticando che intanto le altre cinque facce assomigliano al vestito di Arlecchino.

 

Si prenda, per iniziare, la strategia di convertire il 25% dell’agricoltura europea ad agricoltura biologica: un target sbagliato oltre che irrealistico.

Nel 2020:

Il 7,5% dell’agricoltura europea è condotta col metodo biologico, includendo in queste percentuali enormi estensioni a pascolo, a riposo o a prato. L’obbiettivo comunitario è di raggiungere nel 2030 il 25% di terreni ad agricoltura biologica. Nei sei anni che vanno dal 2012 al 2018 le superfici comunitarie a biologico sono aumentate del 34%: in 9 anni e mezzo da oggi si propone di moltiplicare per sette quell’incremento percentuale, ossia del 233%, un target degno dei piani quinquennali sovietici. In realtà per arrivare ad un quarto delle superfici coltivate a biologico il metodo più efficiente sarebbe quello si smettere di coltivare la maggior parte dei terreni agricoli europei, tranne quelli coltivati ad agricoltura biologica: in questo modo salirebbe la percentuale a biologico e saremmo tutti pronti per una imminente carestia. Un disastro economico ed un rischio alimentare su cui si dovrebbe riflettere in profondità visto che già oggi l’Europa importa derrate alimentari per oltre 40 miliardi di euro e fa coltivare fuori dall’Europa decine di milioni di ettari per poter alimentare i cittadini europei.

Come dicevamo ogni iniziativa nella catena agricoltura/emissioni di gas serra/alimentazione porta a squilibri assai imprevedibili. Il parametro unificante è che non è possibile fare agricoltura biologica per qualunque tipo di pianta su un qualunque terreno, a qualunque latitudine o altitudine, con tutti i climi per qualunque condizione di piovosità, di disponibilità di fertilizzanti e di presenza di parassiti o piante infestanti. Uno studio pubblicato su Nature a fine 2018  evidenzia bene tali problematiche intricate ed interconnesse, ad esempio dimostrando che allevare bovini in maniera del tutto non intensiva causa emissioni di gas serra sei volte superiori ad un allevamento moderatamente intensivo, fatto nei luoghi vocati e usando mangimi adeguati e non il semplice pascolo. Altrettanto dicasi per la coltivazione del mais in pianura padana dove si coltiva la maggior parte del mais italiano da mangime: produrre mais in regime biologico è estremamente difficile, mentre farlo a 500 metri di quota consente di avere qualche maggiore speranza di successo.

 

Senza zootecnia intensiva non si fa Biologico.

Il riferimento alla zootecnia è indispensabile per ragionare di agricoltura biologica: in sintesi senza allevamenti (e anzi senza zootecnia intensiva) l’agricoltura biologica è ecologicamente insostenibile. Va ricordato infatti che per le coltivazioni biologiche non sono ammessi fertilizzanti di sintesi e quindi le due principali fonti di alimentazione vegetale biologica sono le carcasse animali (epiteli, pelli, zoccoli, corna, sangue e scarti di macellazione) o il loro letame . A semplice modo di esempio esistono in Italia 197 fertilizzanti a base di Epitelio animale idrolizzato, oppure 890 fertilizzanti biologici a base di Carniccio Fluido in sospensione. Poi vi sono anche alghe, residui di leguminose o altri scarti di lavorazione agricola, ma per ogni tipo di fertilizzante va fatto un discorso a parte. Ad esempio servono circa 5 quintali per ettaro se si alimenta un campo con fertilizzanti di sintesi. Per spargere un letame maturo (33% di umidità) a dosaggi nutrizionali paragonabili invece dei 5 quintali servono dei quantitativi in peso 33 volte superiori (165 quintali) e trasporto, consumo di gasolio e spargimento sono problemi tecnici ed ambientali per nulla trascurabili. I concimi e la concimazione, in generale, servono a mantenere il grado di fertilità del suolo. Le colture agrarie asportano notevoli quantità di nutrienti (il terreno non rigenera da solo le sostanze nutritive) quindi occorre riportare quanto tolto. Apportare fertilizzanti (concimare) è fondamentale: il problema è come, quando e con quali prodotti farlo. I concimi chimici, semplici o complessi, permettono di svolgere tale funzione con impatti molto contenuti. Per esempio, oggi possiamo contare sulla tecnologia dell’azoto a cessione programmata o a “lenta cessione”, che riduce notevolmente le perdite. Ci si avvicina alla lenta cessione naturale dei fertilizzanti organici ma con un notevole vantaggio: lo stoccaggio (minor spazio richiesto e bassissimo rischio di inquinare per perdite di percolato); la movimentazione (spostare concimi chimici costa poco in termini di CO2  emessa e sicuramente molto meno rispetto alle quantità di letame equivalente movimentato); la distribuzione (distribuire concimi chimici è molto più agevole del letame in qualsiasi momento della stagione senza odori); la fertirrigazione (solo la maggior parte dei concimi chimici ci permettono di eseguire fertirrigazioni attraverso le irrigazioni a goccia, impossibile con fertilizzanti organici completi). Si pensi poi al liquame, a quanto sia mal tollerato dalla cittadinanza, dalla opinione pubblica e dagli stessi ambientalisti – anche se naturale. In sostanza, fertilizzare con il solo letame è impossibile: se abbiamo disponibilità di impiegare sostanza organica, questa disponibilità è resa possibile grazie agli scarti biologici degli allevamenti intensivi (bovini, suini e avicoli). Molti dei prodotti impiegabili e impiegati in agricoltura biologica provengono dalla lavorazione “industriale” di sottoprodotti di allevamenti industriali, di macelli industriali, di industrie di trasformazione (esempio industria delle olive, della frutta trasformata, degli agrumi, ecc. ecc.). In ultima analisi, pensiamo al mezzo fallimento del compost o del digestato (aziende produttrici che pagano per poter ottenere terreni su cui scaricare un prodotto di scarso valore nutritivo – in altri casi aziende produttrici di compost che acquistano terreni per scaricare enormi quantità di compost), perché anche il “naturale” inquina se gestito male.

Poi si deve capire da quale sorgente derivi il letame. Nell’allegato 1 del disciplinare sull’agricoltura biologica europea viene detto che i letami non possono derivare da allevamenti industriali (sono identificati gli allevamenti che tengono gli animali in assenza di luce naturale, o luce artificiale “per tutta la durata del ciclo di allevamento”. Oppure animali “permanentemente” legati o stabulati su pavimentazione “esclusivamente” grigliata o in ogni caso non dispongano di una zona di riposo dotata di lettiera vegetale). Eliminare le condizioni virgolettate permette di uscire dalla definizione di allevamento industriale e di entrare a tutti gli effetti nell’altra categoria.

Ma subito sotto vengono elencate tutte le farine animali di derivazione animale e non viene fatta alcuna restrizione. Tradotto questo vuol dire che sono ammessi i letami di allevamenti che rispettano il benessere animale, ossia che  garantiscono le condizioni del benessere animale detto più sopra Questa regola però non vale per gli scarti di macellazione che quindi possono derivare da qualunque tipo di allevamento zootecnico, oppure per gli animali morti e impiegati nell’industria dei concimi. In particolare oltre il 90% dei mangimi europei contengono soia, mais o altri alimenti Ogm e questi possono essere usati per alimentare vacche, maiali o polli le cui carcasse verranno usate per fertilizzare i campi biologici. Questa pratica è indispensabile per poter coltivare in biologico dato che in nessun caso un ettaro di terreno biologico su cui pascolano due vacche riesce a restituire a quel terreno abbastanza nutrienti per consentire la crescita dei mangimi necessari a far crescere le stesse due vacche l’anno seguente. In pratica serve consumare altro suolo per far restare in equilibrio nutrizionale una determinata superficie a biologico. Questo spiega che coltivare biologico fa consumare suolo e consumare suolo restringe e riduce la biodiversità.

 

Troppa agricoltura biologica diventa ecologicamente insostenibile.

In aggiunta a tutto questo lo stesso documento From Farm to Fork presagisce una riduzione nell’impiego dei fertilizzanti del 20%, quando l’aumento degli ettari ad agricoltura biologica farebbe invece aumentare il consumo di fertilizzanti. Varie pubblicazioni su Nature hanno spiegato quanto sia impattante l’agricoltura biologica e in particolare Muller e coautori su Nature nel 2017  hanno stimato che una conversione a 100% agricoltura biologica realizzata nel 2050 porterebbe a:

  • L’uso di terra aumenta del 16-33%
  • La deforestazione aumenta del 8-15%
  • L’emissione di gas serra aumenta del 8-12%
  • L’uso di acqua al 2050 aumenterà del 60%

Ma questi valori sono largamente sottostimati in quanto trascurano tutto il capitolo sull’origine e sulle emissioni di gas serra derivanti dai mangimi, dal loro trasporto e produzione, dai letami, dalla combustione delle carcasse o dai costi dello spandimento di letami e farine animali. A conferma di tale sottostima Smith e coautori a fine 2019 su Nature hanno valutato che se l’intera agricoltura di Galles ed Inghilterra diventasse biologica si dovrebbe importare dall’estero circa metà del cibo oggi consumato delle due regioni, con delle evidenti ricadute in termini di produzione di gas serra e di sicurezza negli approvvigionamenti.

Tutto questo perché va ricordato che le produzioni da agricoltura biologica sono quasi sempre inferiori del 30 o 40% rispetto a quelle da agricoltura integrata e quindi richiedono un maggior consumo di suolo rispetto all’agricoltura convenzionale. Una stima datata 2016 del Dipartimento all’agricoltura statunitense elenca tutti i tipi di coltura degli USA e tutte le rese per ettaro di ciascuna pianta coltivata in modo integrato o biologico, per concludere che la conversione a biologico porterebbe a dover coltivare un terzo in più di terre negli USA, ovvero 42 milioni di ettari, come a dire oltre tre intere Italie agricole da dover coltivare per compensare le riduzioni di produzione.

Le strategie comunitarie per sostituire i mangimi zootecnici con insetti, alghe o scarti della pesca sono ipotesi interessanti, ma anche queste andranno pesate per i loro rispettivi impatti ambientali, capacità di trasporto e conseguenze sulla dieta zootecnica o sul loro impiego come fertilizzanti.

 

Articolo a cura di Eliano Morello, Ignazio Verde, Roberto Defez, Vincenzo Tabaglio.