Analisi delle proposte avanzate circa la riduzione degli usi di agrofarmaci di sintesi e dei rischi sanitari/ambientali derivanti dai prodotti fitosanitari

 

Premessa

Gli obiettivi riportati dal Green Deal in tema di riduzione degli agrofarmaci di sintesi (-50% entro il 2030) suscitano diverse perplessità e preoccupazioni sulle basi stesse delle proposte avanzate. Il comparto fitosanitario è infatti già orientato verso tali obiettivi da quasi trent’anni, periodo nel quale sono state selezionate attentamente le molecole impiegabili a difesa delle colture, come pure sono state tagliate le tonnellate complessive impiegate annualmente. Ciò ha condotto a minori usi in termini assoluti, nonché a un sostanziale miglioramento dei profili tossicologici e ambientali dei prodotti stessi. È cioè da tempo applicato proprio quel processo di mitigazione dei rischi per la salute e per l’ambiente auspicato dal Green Deal, nel quale le ulteriori riduzioni proposte vengono invece presentate quasi fossero una novità assoluta in ottica di evoluzioni future.

 

Pare cioè che i redattori siano ignari che tale riduzione è già stata di fatto realizzata, per giunta in modo drastico, veloce e non sempre razionale, tanto da creare oggi falle preoccupanti nella difesa delle colture, soprattutto pensando al continuo arrivo in Europa di parassiti e patogeni alieni, uno fra tutti la Cimice asiatica. A ciò si aggiunga il continuo amplificarsi di preoccupanti fenomeni di resistenza che si avvantaggiano soprattutto della rarefazione di sostanze attive disponibili. Per tali motivi, auspicare un ulteriore e consistente taglio dei prodotti di sintesi, attualmente capisaldi della difesa fitosanitaria, rischierebbe di inasprire le già attuali carenze di soluzioni tecniche, senza considerare peraltro che ai primi due posti nelle classifiche di impiego in Italia spiccano due sostanze ammesse anche in biologico come zolfo e rame, ovvero le due soluzioni più antiche utilizzabili oggi dalla fitoiatria moderna. Sostanze per le quali, stranamente, non si auspica invece alcuna riduzione volumetrica nonostante vi siano sensibili criticità tossicologiche e ambientali, per lo meno a carico del rame. Né si comprende come verranno valutati per esempio i feromoni, visto che anch’essi sono di fatto molecole di sintesi, ma non per questo disdegnati dal biologico.

 

Tali aspetti dovrebbero fare meditare chi abbia davvero a cuore l’evoluzione tecnologica dell’agricoltura in genere e della fitoiatria in particolare, restando lontani da influenze ideologiche e da pressioni di tipo lobbistico come quelle operate appunto dalle agricolture biologica e biodinamica che al momento pare siano le uniche ad avvantaggiarsi economicamente delle scelte ipotizzate, creandosi in tal modo gravi sperequazioni fra imprenditori agricoli, dove per avvantaggiarsi si intende approfittare di cospicui finanziamenti dedicati, dato che dal punto di vista delle produzioni agricole si tratterà di far fronte a una riduzione significativa delle rese in campo.

 

Quanto sopra si andrebbe inoltre ad aggiungere al già insoddisfacente grado di auto approvvigionamento di materie prime di base mostrato dal Vecchio Continente, Italia in primis, spinta quest’ultima da tempo ad amplificare le importazioni dall’estero di prodotti da avviare poi a trasformazione. L’Europa in genere, con l’Italia in particolare, pare cioè si stiano orientando verso un futuro da trasformatori di materie prime altrui, piuttosto che da produttori in loco di quanto serve: un vantaggio forse per industrie e grandi catene di distribuzione alimentare, un disastro invece per l’agricoltura e fors’anche per i consumatori.

 

Il tutto in palese conflitto sia con l’obiettivo di un maggior grado di prossimità degli approvvigionamenti delle filiere agroalimentari, auspicati proprio dal Green Deal, sia con le crescenti richieste di Made in Italy espresse dai mercati. Richieste che così proseguendo andrebbero sempre più disattese e che sarebbe opportuno venissero invece tenute in alta considerazione proprio da chi sta redigendo gli obiettivi finali del Green Deal stesso.

 

 

Introduzione

Gli agrofarmaci rappresentano uno dei pilastri su cui si fondano le rese per ettaro delle colture, quindi indispensabili per scongiurare gravi perdite di produzione. Secondo il report 2017 di VSafe, spin off dell’Università del Sacro Cuore di Piacenza, in assenza totale di mezzi di difesa si otterrebbero perdite di produzione del 67% nelle mele, 62% nell’uva da tavola e nelle olive da olio, 81% nel pomodoro da industria, 71% nelle uve da vino, 87% nel mais, 57% nel grano tenero, 70% nel grano duro, 84% nel riso e 68% nelle insalate di quarta gamma. In termini economici, tali stime ipotizzano per le dieci filiere analizzate una riduzione dell’export pari a 6,8 miliardi di euro e un incremento delle importazioni di oltre 3 miliardi, generando un peggioramento della bilancia commerciale di poco inferiore ai 10 miliardi di euro. Peggio potrebbe accadere ai fatturati delle industrie di trasformazione, le quali si stima possano perdere fra i 7,8 e i 34,8 miliardi di euro.

 

Sebbene tali stime siano relative a ipotetici scenari basati sulla totale assenza di agrofarmaci, va comunque ricordato come per ottenere significative crescite delle perdite in campo non serva eliminare del tutto i trattamenti fitosanitari, dal momento che perfino un solo trattamento sbagliato o saltato può provocare perdite finali di alcune decine di punti percentuali nelle colture maggiormente bisognose di cure, come per esempio quelle frutticole, orticole e nella vite. Non è quindi per caso se la Fao ha nominato il 2020 “Anno internazionale della salute delle piante”, ricordando come già oggi si stimino intorno al 40% le perdite di cibo a livello mondiale causate da parassiti e patogeni.

 

Tradotto in valore economico, sempre secondo la Fao, già oggi andrebbero in fumo 220 miliardi di dollari a livello globale. Ma cosa ancor più grave dei danni di carattere economico sono le severe carenze alimentari che affliggono ampie porzioni del Pianeta. Carenze di cui il Mondo occidentale non patisce più soprattutto grazie all’elevato livello tecnologico raggiunto anche, sebbene non solo, in campo fitosanitario. Troppo facile appare infatti oggi dimenticare le carestie e i gravi livelli di malnutrizione e povertà che affliggevano persino il Continente europeo solo fino a un secolo fa, prima che chimica, genetica e meccanizzazione affrancassero i popoli europei dalle vessazioni della fame. Mesti scenari che purtroppo appaiono oggi dimenticati.

 

Ma il report di VSafe va oltre: dai dati riportati, infatti, si evince come anche il profilo tossicologico degli agrofarmaci attualmente utilizzati sia ampiamente migliorativo rispetto ai prodotti impiegati in passato. Nel 2016, oltre il 70% degli agrofarmaci distribuiti rientravano infatti nella categoria dei “non classificabili” tossicologicamente. Il 25,7% era rappresentato da prodotti classificati come “nocivi”, mentre i formulati classificati come “Molto tossici e Tossici”, sono risultati inferiori al 4%. A ulteriore dimostrazione di quanto sia stato severo il processo selettivo in corso, finalizzato proprio alla riduzione dei rischi legati all’impiego degli agrofarmaci. Si ricorda peraltro che la classificazione tossicologica degli agrofarmaci è operata solo in funzione del concetto di “pericolo intrinseco” dei formulati tal quali e non del “rischio reale” per operatori, cittadini e ambiente, il quale prevede anche la valutazione dell’esposizione al prodotto stesso.

 

  1. Le influenze delle normative europee sulla disponibilità di sostanze attive

Nel corso degli ultimi tre decenni la fitoiatria europea e italiana si è alquanto impoverita in termini di soluzioni utilizzabili per la difesa delle colture. In parte per la calante disponibilità di sostanze attive, in parte per il calo assoluto negli usi in campo dei formulati commerciali. Nel primo caso la riduzione di sostanze attive a livello eurocomunitario è stata operata tramite la cosiddetta Revisione Europea, applicazione della Direttiva 91/414/CEE che mirava alla rivalutazione degli agrofarmaci autorizzati sul mercato prima del 1993. Un passo doveroso, dal momento che le prime registrazioni ministeriali in Italia risalgono al 1971, quando i criteri di valutazione tossicologica e ambientale erano molto meno attenti di quelli attualmente applicati in fase di autorizzazione.

 

A partire quindi dal 1993 la Commissione europea ha dato vita al processo di revisione valutando circa 1.000 sostanze attive presenti sul mercato al momento in cui la Direttiva è stata adottata. Di queste circa il 26% ha superato appieno la valutazione di sicurezza per come era stata armonizzata in Europa. La maggior parte delle sostanze, il 67%, è stata invece eliminata o perché le aziende non hanno prodotto i necessari dossier a sostegno, o per incompletezza dei medesimi, oppure ancora per il volontario ritiro da parte delle industrie produttrici, spesso per banali calcoli di convenienza economica visti gli ingenti costi per la difesa delle molecole.

 

Una lista a parte è stata infine predisposta al fine di contenere le sostanze attive che, pur avendo superato la Revisione, presentavano profili tossicologici e/o ambientali tali da auspicarne la sostituzione, non appena fossero giunti nuovi candidati aventi il medesimo grado di efficacia, ma caratterizzati da profili migliorativi. Fra le 77 sostanze attive inserite in tal frangente nella cosiddetta “Lista di sostituzione” è presente per esempio anche il succitato rame nelle sue differenti formulazioni.

 

Parallelamente, dal 1992 la nascita dei Disciplinari di produzione integrata (Reg. CEE 2078/92 evolutosi poi in Piani di sviluppo rurale) ha ulteriormente selezionato i prodotti applicabili in campo, sia da un punto di vista delle sostanze attive, sia valutando la classificazione tossicologica dei differenti formulati in commercio aventi il medesimo ingrediente attivo. Ciò ha limitato ulteriormente la libertà di scelta delle soluzioni fitosanitarie per le aziende che avessero aderito a tali disciplinari, ovviamente a fronte di contributi di tipo economico riconosciuti agli agricoltori a compensazione di tale scelta.

 

Infine, la Direttiva 2009/128/CE, recepita con il decreto legislativo del 14 agosto 2012 n° 150, ha istituito un “quadro per l’azione comunitaria ai fini dell’utilizzo sostenibile dei pesticidi“. Il Pan, piano di azione nazionale, ne è divenuto lo strumento attuativo contribuendo anch’esso a un’ulteriore limitazione negli usi di alcune sostanze attive, sebbene queste fossero regolarmente autorizzate a livello europeo e italiano.

 

  1. Le difficoltà del settore fitoiatrico europeo e nazionale

 

Tale continuo impoverimento di soluzioni fitosanitarie ha reso sempre più complessi i programmi di difesa, basati su sempre meno sostanze attive e modi di azione su parassiti e patogeni. In tal modo si sono esaltate anche le probabilità che insorgessero fenomeni di resistenza ai prodotti rimasti impiegabili. Fenomeno alquanto grave, le resistenze agli antiparassitari, che in Italia è monitorato per esempio dal GIRE, ovvero dal gruppo italiano per le resistenze agli erbicidi, ma che ha manifestato tutto il proprio peso anche a carico di fungicidi e insetticidi, rendendo di fatto inefficaci numerose sostanze attive in diversi areali nazionali. In conseguenza di ciò, pur essendo regolarmente autorizzate e pur essendo state approvate anche dai Disciplinari e dal Pan, tali sostanze è come se non ci fossero più dal punto di vista tecnico in quanto divenute inefficaci. Per lo meno su alcune avversità e in alcune zone. Per misurare la gravità di tale dissipazione di strumenti fitoiatrici basti pensare che al 6 giugno 2020 risultavano autorizzate in Italia 131 sostanze attive ad azione erbicida delle 215 autorizzate in precedenza (-39,1%). Molto peggio per acaricidi, nematocidi e insetticidi, calati rispettivamente del 45%, 41,5% e 41,4% (vedi Fig. 1).

 

Fig. 1: sostanze attive attualmente autorizzate a confronto con quelle revocate

 

I nuovi arrivi dovuti alla ricerca non sono stati cioè in grado di compensare le perdite causate dalla feroce selezione europea dei prodotti precedenti. Tale selezione delle molecole impiegabili ha peraltro eliminato soprattutto quelle caratterizzate da azione multi-sito, forse meno selettive ed eco-compatibili rispetto a molecole più moderne, ma sicuramente indispensabili per scongiurare proprio i suddetti fenomeni di resistenza. Fenomeni verso i quali sono appunto molto più predisposte le molecole caratterizzate da modi d’azione altamente specifici, che, se da un lato le rendono più “eco-friendly”, dall’altro le espongono a rischi molto più elevati di inefficacia nel volgere di pochi anni dal primo impiego.

 

Da ciò l’irrinunciabile necessità di alternare tali molecole con sostanze attive multi-sito, garanzia di una maggiore durata nelle aspettative di vita tecnica proprio delle nuove molecole poste in commercio. Una sorta di “sostenibilità fitosanitaria”, che troppo spesso è stata travolta da una irrazionale selezione operata molecola per molecola, senza cioè tenere conto della necessaria visione di insieme dei programmi di difesa. Una visione che dovrebbe essere invece alla base delle più virtuose alternanze di sostanze attive, obiettivo raggiungibile investendo maggiormente in assistenza tecnica qualificata al servizio degli agricoltori.

 

 

  1. La metamorfosi dello scibile fitosanitario

 

Nel corso degli ultimi venti anni, oltre a una loro riduzione assoluta di tipo numerico, si è assistito anche a uno spostamento nella ripartizione delle sostanze attive. Le molecole di sintesi si sarebbero di fatto dimezzate, passando dalle 441 molecole disponibili nel 2000 alle 230 del 2012, per terminare ad oggi con sole 212 sostanze attive di sintesi attualmente utilizzabili (vedi infografica 1). Al contrario, le sostanze attive non di sintesi, inclusi i microrganismi, sarebbero raddoppiate nel medesimo lasso temporale, passando dalle 52 del 2000 alle 65 del 2012 per giungere alle attuali 104 (vedi infografica 2). Vistosa quindi l’impennata di agenti attivi impiegabili nel biologico, notoriamente contrario all’uso di sostanze di sintesi, eccezion fatta per i feromoni atti al monitoraggio, cattura massale o confusione sessuale degli insetti. Questi sono infatti anch’essi “analoghi di sintesi” dei feromoni naturali, ma vengono impiegati comunque anche in biologico vista la riduzione che possono generare nell’uso di insetticidi, segmento di prodotti nel quale il biologico si mostra tradizionalmente poco attrezzato verso alcune specifiche avversità entomologiche.

 

Infografica 1: andamento delle sole sostanze attive di sintesi nei panorami fitosanitari italiani dal 2000 al 2020 (Fonte: AgroNotizie)

 

 

Infografica 2: andamento delle sostanze attive utilizzabili in biologico dal 2000 al 2020

(Fonte: AgroNotizie)

 

Tali scenari potrebbero ulteriormente cambiare già nel corso dei prossimi mesi, dal momento che entro la fine del 2020 andranno in scadenza autorizzativa ben 54 sostanze attive, ovvero  21 erbicidi, 9 insetticidi, 5 acaricidi e 19 fungicidi. Quante di queste autorizzazioni verranno rinnovate si potrà valutare solo a posteriori. Di certo, appare chiaro il trend verso un ulteriore impoverimento delle soluzioni fitosanitarie disponibili per la difesa delle colture, attività già oggi in gravi difficoltà verso diversi parassiti e patogeni.

 

Ipotizzare ulteriori tagli rispetto a quanto già visto appare quindi oltremodo velleitario, perché se è vero che tagliare soluzioni è cosa abbastanza facile quando ve n’è abbondanza, al calare dei prodotti utilizzabili diviene esponenzialmente più difficile controllare le avversità. Ogni ulteriore riduzione futura genererà cioè falle fitosanitarie  di difficile, se non impossibile, gestione.

 

 

  1. Agrofarmaci: usi in calo da quasi 30 anni

 

Non solo la riduzione delle molecole è stata alquanto spinta dal punto di vista qualitativo e quantitativo, tramite gli sviluppi normativi sopra sviscerati, bensì anche gli usi complessivi di agrofarmaci sono andati progressivamente calando proprio a partire dai primi anni ’90, periodo nel quale toccarono gli apici in termini di tonnellate impiegate(10)(11). Rispetto al 1990 sono infatti calate del 38,5% le tonnellate di formulati commerciali e del 43,7% quelle delle sole sostanze attive (Vedi fig. 2).

Fig. 2: andamento degli impieghi in Italia di prodotti fitosanitari, espressi come sostanze attive (Fonte Faostat) e come formulati commerciali (Fonte Istat). Nota: dal 1990 al 2002 i dati sui formulati commerciali sono stati stimati a partire dalle sostanze attive riportate da Faostat, considerando un contenuto del 53%, ovvero la media dei valori del quinquennio 2003-2007

 

Contrariamente a quanto percepito, infatti, l’uso di agrofarmaci in Italia si mostra in diminuzione da ormai più di un quarto di secolo. Ciò deriva da un lato dalla riduzione assoluta di superfici agricole, calate di quasi due milioni di ettari solo nel periodo dal 1990 al 2005(12), mentre dall’altro ha influito anche l’arrivo di sostanze attive più specifiche, utilizzabili in alternativa a quelle precedenti, meno evolute tecnologicamente e caratterizzate quindi da dosaggi per ettaro superiori.

 

Molto diverso infatti il dosaggio fra un erbicida per il mais come alachlor, utilizzato nell’ordine dei litri per ettaro, rispetto a una più evoluta solfonilurea come rimsulfuron o nicosulfuron, impiegabili a poche decine di grammi. Inoltre, l’affinamento delle tecniche di monitoraggio di patogeni e parassiti, con servizi metereologici sempre più affidabili, ha permesso una maggior razionalizzazione del numero complessivo dei trattamenti in campo.

 

Infine, la revisione dei sistemi agricoli convenzionali ha portato alla cosiddetta agricoltura sostenibile o conservativa, basata su criteri agro-ecologici, permettendo di diminuire da un lato gli inoculi e quindi il rischio di minacce biotiche, dall’altro di ripristinare su criteri più scientifici una gestione olistica dell’agrosistema, basata questa sull’integrazione di tutti i capitoli della tecnica colturale e non solo della difesa. Non esiste infatti di per sé una difesa sostenibile delle colture se non si opera secondo una più estesa logica di sistema agrario sostenibile.

 

  1. Gli attuali usi in Italia

 

Secondo Istat e Ispra, nel 2018 sarebbero stati impiegati 114.395.891 kg di agrofarmaci, pari a circa 1,9 kg/pro capite per Italiano. Un valore sceso del 27,6% rispetto ai 158.011.818 kg riportati da Istat per l’anno 2003. Una diminuzione cioè di -43.615.927 kg in soli 15 anni. Analogamente, anche le sostanze attive sono calate da 86.765.213 kg del 2003 a 55.632.869 kg del 2013. Un calo del 35,9% per un totale di -31.132.344 kg in soli dieci anni. A oggi sono infatti meno di 54 milioni di chili le sostanze attive impiegate in agricoltura in tutta Italia. Meno cioè di un solo chilogrammo pro capite per ottenere cibo italiano 365 giorni l’anno. I soli insetticidi sono calati dal 2003 al 2013 in ragione del 31,8%, ovvero da 33.497.268 kg di formulati commerciali a 22.829.216 (-10.668.052 kg in dieci anni). Nello stesso periodo, le sostanze attive ad azione insetticida sono scese da 12.814.362 kg a 6.145.728 kg (-6.668.634 kg, ovvero -52%). I dati sugli insetticidi hanno poi continuato a calare anche negli anni seguenti, facendo segnare 20.645.069 kg nel 2018 (-2.184.147 kg, pari a -9,5%), ovvero poco più di cinque milioni e mezzo di chili di sostanze attive. Un calo enorme rispetto ai quasi 13 milioni di chilogrammi impiegati solo 15 anni prima. Appare quindi poco sensato attribuire agli agrofarmaci in generale e agli insetticidi in particolare il calo registrato nelle popolazioni di insetti e avifauna, avvenuto in una fase di forte diminuzione degli usi e delle superfici agricole sul totale della superficie nazionale.

 

 

Conclusioni

Rispetto al 1990 è già stata operata una forte riduzione negli impieghi di agrofarmaci, pari a circa il 40% se espressi in tonnellate utilizzate in Italia. Di quasi il 70% invece la riduzione delle molecole precedentemente impiegate, che ha valorizzato soprattutto quelle a miglior profilo tossicologico e ambientale. L’evoluzione delle tecniche di monitoraggio e di previsione metereologica ha parallelamente consentito di ottimizzare i programmi di difesa, minimizzando i trattamenti allo stretto necessario. Nel frattempo sono migliorate anche le attrezzature atte alla distribuzione in campo dei prodotti fitosanitari, grazie all’arrivo di macchinari in grado di ridurre significativamente la deriva degli aerosol irrorati. In sostanza, ciò che il Green Deal propone di fare entro il 2030 appare in larga parte già realizzato con il miglioramento significativo del comparto rispetto agli approcci fitoiatrici obsoleti che hanno caratterizzato gli anni ’70 e ’80. Ogni ulteriore passo futuro dovrà quindi tenere conto di tali sforzi già sostenuti, al fine di evitare che sulla difesa fitosanitaria vengano esercitate ulteriori pressioni tanto anacronistiche quanto pericolose proprio in termini di sostenibilità delle produzioni agricole e degli approvvigionamenti alimentari di base del Continente europeo. Per la legge della marginalità decrescente, infatti, ogni ulteriore passo nell’attuale direzione costerà sempre di più in termini di assistenza tecnica necessaria per ottenere un singolo e specifico miglioramento.

 

Articolo a cura di Donatello Sandroni.