“Pesticida” ed “erbicida” non sono parole che suonano bene. Ma, se un attento esame le priva dell’alone minaccioso, si scopre che parliamo di strumenti per combattere – in agricoltura e non solo – gli inevitabili nemici: i pesticidi ammazzano o respingono le pesti, cioè insetti, batteri, funghi e virus; gli erbicidi distruggono o limitano le malerbe invasive.
Questa premessa, solo apparentemente scontata, va ben compresa quando si parla dell’erbicida che soffre da tempo di pessima reputazione, di cui l’Unione Europea nel 2017 ha rinnovato l’autorizzazione per cinque anni: il famigerato glifosato. Il nostro intento è di ristabilire un po’ di verità in un dibattito dove le incomprensioni abbondano e le pure falsità vengono diffuse a iosa, come spiegano Roberto Defez ed Elena Cattaneo.
E’ sbagliato sostenere che sia stata l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a dichiarare il glifosato “probabilmente cancerogeno”. Tale verdetto è stato emesso da una piccola agenzia semi-indipendente all’interno dell’OMS, la IARC (International Organization for Cancer Research): ma è smentito dalla stessa OMS in un comunicato congiunto con la FAO, nonché da altre autorevoli agenzie pubbliche: in particolare l’EFSA (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, che ha sede a Parma), l’Istituto tedesco per la valutazione del rischio, l’Agenzia Europea delle Sostanze Chimiche (ECHA) e la statunitense EPA.
Si sente dire, in modo che suona un po’ tendenzioso, che allo studio tedesco, cui fa riferimento anche l’EFSA, hanno collaborato alcuni produttori del glifosato. Aggiungiamo noi che, come è già stato rilevato in toni inutilmente allarmati, il rapporto con cui l’EFSA dà il suo parere positivo alla ri-autorizzazione dell’erbicida riporta tali e quali dei brani tratti dalla documentazione fornita dal produttore. Sebbene l’EFSA abbia già spiegato come e perché ciò è usuale , anche noi sottolineiamo come sia del tutto ovvio che industrie di settore forniscano dati e studi sull’innocuità dei prodotti che intendono commercializzare: ci aspetteremmo forse che gli esami riguardanti la benignità dei farmaci o la sicurezza delle auto siano da cima a fondo a carico dei contribuenti? Certo è giusto esercitare una sana diffidenza: ad esempio, alcune case automobilistiche hanno notoriamente barato sui dati delle emissioni. Ma se gli organismi pubblici e indipendenti (l’EFSA e i suoi omologhi) confermano le analisi fornite dai produttori, questo non significa che gli esperti pagati da noi siano dei venduti, come una rumorosa, incessante propaganda cospirazionista vorrebbe imporci di credere.
Il giudizio della IARC sulla “probabile cancerogenicità” del glifosato è metodologicamente dubbio e fattualmente viziato. La scarsa rilevanza scientifica è legata al fatto che le monografie pubblicate dall’agenzia, dedicate di volta in volta a singole sostanze chimiche (naturali o sintetiche), o a gruppi di esse, segnalano il ”pericolo” e non il “rischio”. Questa distinzione tecnica è facilmente comprensibile anche ai non specialisti: nella terminologia propria del risk assessment, ovvero le indagini preliminari che devono guidare il risk management, cioè le decisioni su come gestire i pericoli per la salute e l’ambiente, “hazard” (“pericolo”, o, se vogliamo, “azzardo”) è la generica indicazione di problematicità di una sostanza o di un prodotto: quello che davvero conta, il “rischio” effettivo, è invece dato dall’esposizione alla sostanza (risk = hazard x exposure). E’ cioè inutile limitarsi a sostenere che certi funghi sono più o meno tossici (“pericolo”): sebbene sia vero, dipende se e quanti ne mangiamo (“rischio”). Questo è il punto, secondo l’EFSA e secondo tutti gli altri enti scientifici escluso la IARC, che tale tipo di indagine empirica semplicemente non la svolge. Dobbiamo invece fare tesoro dell’insegnamento risalente al buon vecchio Paracelso, il quale già vari secoli fa ricordava che “è la dose che fa il veleno”.
L’antico alchimista sosteneva addirittura che “tutto è veleno”. Esagerava un po’, ma è diventato proverbiale il piccolo scherzo di un gruppo di burloni, che tempo fa propose la proibizione del monossido di diidrogeno, sostenendo che tale sostanza può provocare la morte per inalazione, è presente nelle piogge acide, è diffusa sulla superficie terrestre in fiumi, laghi e serbatoi, erode i panorami naturali, danneggia gli impianti elettrici, corrode i metalli; produce dipendenza e l’astinenza da essa provoca la morte. Tutto vero: solo che il monossido di diidrogeno è… l’acqua!
Quindi, al di là del caso glifosato, molti esperti ritengono che lo IARC faccia solo un mezzo lavoro, sostanzialmente fuorviante. Si noti che, nelle sue pubblicazioni, sono indicate come “probabilmente cancerogeni” (insieme al glifosato) i turni di notte, il lavoro del parrucchiere, la carne rossa, le bevande calde (oltre 65°), la malaria, le emissioni dalle fritture (ma non dalle grigliate); a un livello di azzardo maggiore, per la stessa IARC sono (certamente) “cancerogeni” le bevande alcooliche, la carne lavorata, il pesce salato, la segatura, insieme a… amianto e plutonio! Ci consola sapere che l’aloe vera, le verdure sottaceto, l’olio di cocco e i (campi magnetici da) telefoni senza fili siano solo “possibilmente cancerogeni”. Il tutto non ha senso, se non si chiarisce a che livello di esposizione cominci a manifestarsi il vero rischio di questa bizzarra accozzaglia di lavori e prodotti. Le altre agenzie preposte al controllo della salute pubblica, compresa l’OMS in generale, fanno invece il lavoro intero, ovvero considerano il rischio nel suo complesso, e soprattutto mirano ad accertarne la consistenza non in termini meramente teorici, ma nella realtà della produzione e del consumo. Così, rendono un pessimo servizio ai lettori i commenti di stampa che pongono sullo stesso piano i pareri della IARC, operativamente inconsistenti, con quelli della stragrande maggioranza degli specialisti.
D’altra parte, non ci sentiamo affatto cospirazionisti se sottolineiamo che la battaglia contro il glifosato può favorire l’industria europea (e italiana) dei pesticidi. www.politico.eu/article/french-and-italians-sense-golden-opportunity-in-glyphosate-ban Coloro che, magari in buona fede, si sono dati un gran da fare per bandirlo, sono inconsapevoli strumenti di un’altra parte della lobby industriale; purtroppo, molti attivisti sono agit-prop sfruttati come “utili idioti”, nella cruda ma realistica espressione di Lenin.
Comunque, uno dei massimi esperti mondiali, docente in un’universita pubblica (e, speriamo, non prezzolato sottobanco dalla Monsanto) ha dimostrato che gli intrugli “biologici” di sale e aceto con funzione erbicida sono molto più tossici del glifosato. Però tranquillizziamoci, basta non ingurgitare grosse razioni del composto – né di alcun altro erbicida, ovviamente. Sale e aceto! Che delusione, sono così “naturali”… Ma a proposito di “naturalità”, è bene ricordare che il 99,9% dei pesticidi che ingeriamo sono contenuti naturalmente nei cibi , soprattutto vegetali: grani, frutta e verdura li sviluppano perché servono a difenderli da chi se li vuole mangiare; ma le quantità che ammazzano insetti e batteri non fanno alcun effetto sull’Homo sapiens o altri grossi mammiferi.
Di passaggio, noteremo che essere “contro i pesticidi”, senza se e senza ma, significa prendere la parte delle pesti. Alzi la mano chi abbia sempre serenamente sopportato zanzare, mosche e scarafaggi, ovvero non abbia mai usato un flit o uno zampirone: pesticidi!
Un’altra fonte di annunci allarmistici riguarda la presenza del glifosato in tracce anche dove non ci si aspetterebbe di trovarlo, ovvero lontano dai campi, e anche in tanti cibi; il che non stupisce: essendo usatissimo, sorprenderebbe il contrario. Con gli avanzati strumenti di rilevazione oggi disponibili, è facile trovare delle sostanze più o meno nocive un po’ ovunque; ma la domanda immediata deve essere: in che quantità? Se parliamo di parti per miliardo, la cosa deve lasciarci indifferenti. Dove la sostanza superi i limiti ammessi, bisogna che i poteri pubblici intervengano: ma si tenga conto che, giustamente, le soglie tollerate dalla regolamentazione sono strettissime. Ovviamente, c’è un bel salto tra la ragionevole limitazione dell’uso di un qualsiasi prodotto e la sua abolizione! Per cui, quando sentiamo strillare che la tale deleteria sostanza è stata individuata nei cavolfiori o sulle albicocche, dobbiamo pretendere che chi vuole impressionarci specifichi la quantità di presunto veleno e i limiti ammessi dalla regolamentazione. Analogamente, l’asserita riduzione delle irrilevanti tracce di glifosato dalla dieta “biologica” seguita da alcuni volontari non ha la minima rilevanza per la salute di questi soggetti: per chi si informi bene sui termini scientifici della presunta notizia, l’intento propagandistico dell’operazione è lampante.
Siccome è difficile che tali complesse informazioni stiano nei 140 caratteri di un cinguettio su Twitter, e sapendo come a molti mezzi di comunicazione piacciano le cattive notizie, è bene che esercitiamo costantemente un sano scetticismo di fronte a certi proclami.
Si dirà: è pur vero che in Europa più di un milione di persone hanno firmato per la messa al bando del glifosato. Qui non dobbiamo credere che il numero dei sostenitori di una tesi la renda vera: a meno che ci rassegniamo a credere che conti il numero di like che corredano una falsa notizia (fake news, come dicono quelli che sanno l’inglese): è la “Facebook science”, fenomeno sarcasticamente rilevato dal capo dell’EFSA e ancora più pesantemente additato come “Fakebook science”! D’altra parte, un attivista che inviti a firmare per la proibizione di una “sostanza chimica” che è stata dichiarata “probabilmente cancerogena” da una “agenzia dell’OMS” non dice il falso: comprensibilmente, guadagnerà la firma di molti cittadini, bellamente ingannati.
Il glifosato è però vittima del suo successo: essendo così efficace (e relativamente poco costoso, dopo che il brevetto è scaduto e quindi la concorrenza ne ha abbassato il prezzo), viene spesso sovra-utilizzato, al di là dei consigli che i produttori indicano chiaramente nelle istruzioni d’uso. In un meccanismo biologico-ecologico del tutto prevedibile, uno strumento di lotta usato in modo improprio favorisce l’insorgere di resistenza da parte del nemico: è purtroppo la storia degli antibiotici, che negli ultimi anni sono diventati meno efficaci perché spesso usati troppo e male. Gli antibiotici non hanno “generato super-batteri”, non più di quanto gli erbicidi abbiano “creato super-erbacce” o i pesticidi abbiano “prodotto super-pesti”. Una ripassatina ai fondamenti della teoria dell’evoluzione chiarisce subito che si tratta di una dinamica intrinseca all’interminabile corsa agli armamenti tra specie concorrenti, che avviene sia in natura che in agricoltura: in termini darwiniani, si chiama “coevoluzione competitiva”.
Ma se non si usano gli erbicidi, o li si limita fortemente, le alternative sono semplici. 1. Si deve arare in profondità prima della semina e sarchiare fra i solchi mentre le colture crescono. Conseguenze: maggiore inquinamento da combustibili fossili per i macchinari, erosione dei terreni, liberazione di anidride carbonica a effetto serra (sia contenuta nel suolo che emessa dalle macchine), costi superiori per i produttori con ripercussione sui prezzi al consumo. 2. Si strappano a mano le malerbe. Conseguenza: il duro lavoro manuale che ha sempre oppresso la vita e la salute dei contadini; e che ancora oggi, dove l’agricoltura è tecnologicamente arretrata, spacca la schiena, soprattutto delle donne, e coinvolge i bambini che starebbero meglio a scuola o a giocare. Come è stato detto, l’unico erbicida che non crea resistenza è la mondina. Non è lì che vogliamo tornare.

 

Articolo originariamente pubblicato su “La Stampa” a cura di Giovanni Molteni Tagliabue, Gilberto Corbellini, Roberto Defez e Piero Morandini.